“Accolgo questo incarico con l’impegno di sviluppare progetti che possano riportare slancio all’associazione e attenzione sul nostro mercato”: così Giorgio Brenna – presidente e amministratore delegato di Leo Burnett Group Italia e Continental Western Europe – aveva commentato la sua recente nomina a presidente dell’International Advertising Association (IAA) per l’Italia. Un ruolo importante in una realtà di prim’ordine, punto di raccordo e di osmosi tra il panorama comunicativo italiano e quello internazionale. Abbiamo parlato con lui di questa sua nuova sfida, della situazione in cui versano i settori della creatività e del marketing nel nostro Paese e di cosa c’è da cambiare per poter giungere a una competitività che sia davvero forte a livello mondiale.
Osare per non essere invisibili: intervista a Giorgio Brenna, presidente dell’International Advertising Association
Lei è stato da poco eletto presidente della sede italiana dell’International Advertising Association (IAA). Quali sono le iniziative, i primi passi che intende intraprendere in questo suo nuovo ruolo?
Vorrei specificare innanzitutto che l’IAA è un’associazione internazionale, e non si può dire lo stesso di altre realtà presenti qui in Italia. È un’associazione trasversale su tutti i settori della industry, quindi può coinvolgere persone accademiche, agenzie, centri media e aziende, ed è l’unica che può vantare questo tipo di approccio. Un’altra caratteristica è che questa è un’associazione di persone e non di aziende che rappresentano un interesse di settore. Sono stati tutti questi fattori che mi hanno spinto ad accettare questa carica. Il primo obiettivo è sicuramente quello di far crescere questa realtà, che si stava un po’ rimpicciolendo per mancanza di spinta. Il mio ruolo è dunque quello di spingere, e vorrei avere un centinaio di associati entro la fine dell’anno: siamo passati in poco tempo da 26 a 45. Abbiamo in lista altri nomi, tra cui molti giovani.
Quali sono i vantaggi che un professionista della comunicazione può trarre unendosi all’IAA?
Il primo è il fatto che si tratta di un’associazione di primo livello su tutti i settori della nostra industry, e quindi associandosi si può avere un network di relazioni importanti. Poi c’è la possibilità di partecipare a tavole rotonde ed eventi che organizziamo, incontri molto interessanti e completi. L’ultimo che abbiamo fatto riguardava lo stato della formazione nel nostro settore. Il terzo motivo per cui bisogna associarsi è legato proprio a questo punto, ossia la formazione, che interessa molto i ragazzi desiderosi di apprendere per il proprio futuro. I “vecchi” professionisti come me possono in questo modo essere in contatto con i giovani, con il futuro della nostra industry.
Tra le attività dell’associazione, come ha detto lei, c’è anche quella della formazione di nuove qualificate leve nel settore e del riconoscimento di iniziative – a partire da quelle universitarie – che svolgono una rilevante funzione a tal fine. Quali sono secondo lei le principali sfide che deve affrontare oggi chi si addentra per la prima volta nel mondo della comunicazione?
La sfida principale innanzitutto è quella di volere entrare in questo settore, il che non è banale: questo mondo ha perso molto dell’appeal che aveva quindici anni fa. L’altra sfida è poi quella di riuscire ad entrare, perché il settore si è rimpicciolito e sono diminuiti gli addetti ai lavori. Per ottenere questi due primi risultati, i ragazzi hanno bisogno di conoscere e farsi conoscere, e queste sono le prime sfide che voglio affrontare per loro. Voglio dare ai giovani la possibilità di relazionarsi con i più grandi professionisti di questo settore e poi dar loro il maggior numero di conoscenze possibili, in modo che poi possano parlare con linguaggi corretti e con almeno le nozioni di base, così da entrare in questo mondo in maniera diretta e non tramite il solito invio di curriculum.
Lei è anche presidente e amministratore delegato di Leo Burnett Group Italia e Continental Western Europe. In questa sua posizione, quali differenze riesce a scorgere tra il panorama comunicativo in Italia e nel resto d’Europa?
La differenza deriva da diversi fattori. L’Italia a livello mondo conta circa lo 0,5 – 0,7%. Bisogna già partire da questa consapevolezza. Nel nostro settore, il Paese guida sono sempre stati gli Stati Uniti. Il marketing è nato là e là c’è l’avanguardia, che si è spostata da New York e Boston a San Francisco. L’avanguardia è là perché la comunicazione è basata sulle piattaforme tecnologiche, e la tecnologia è in quei luoghi, in Silicon Valley. Per informarsi su quello che succederà in Europa e in Italia nei prossimi anni, bisogna vedere questi posti, andare a visitare Google, Facebook, Twitter e alcuni dei fondi di investimento speculativi per capire che tipo di start up si vanno a finanziare. In questo modo si può avere un’idea su cosa accadrà da noi in futuro. Un esempio è la realtà virtuale, un campo dove si stanno investendo miliardi di dollari. In Italia è una frontiera quasi sconosciuta e i più la associano esclusivamente agli oculus, ma non è per niente così. Ci sono studi psicologi e neurologici dietro che dimostrano che, se la realtà virtuale è fatta bene e coinvolge tutti i sensi e non solo la vista, avremo un’esperienza più duratura nella nostra memoria rispetto a un’esperienza diretta. Credo che si tratti di una cosa stravolgente: dobbiamo lavorare su questo per il futuro. L’Italia deve innanzitutto andar fuori per capire cosa sta accadendo, portare queste nuove conoscenze a casa e poi iniziare a investire.
A volte però le agenzie creative lamentano, proprio da parte di chi deve investire, la paura di osare.
Queste agenzie, però, cosa fanno per essere i motori di questo osare? Probabilmente nulla. Dobbiamo essere noi i primi a osare, non le aziende. Io ho osato diventare il primo presidente della sezione italiana dell’IAA anche se sono proveniente da un’agenzia, la più grande in Italia. Questo è un segnale molto forte credo, perché per me questo è osare: portare nel nostro Paese degli elementi che non ci sono, coinvolgendo cinquanta giovani, è qualcosa che non si era mai visto prima. Osare vuol dire anche andare in giro affermando di essere i più forti? Secondo me sì, perché c’è spesso questa tendenza al basso profilo che è diventata fastidiosa. Essere di basso profilo vuol dire essere invisibili, e la comunicazione insegna che essere invisibili equivale a non esistere.
Leo Burnett è riuscita a ottenere nel tempo numerosissimi riconoscimenti internazionali. In che modo la vostra agenzia riesce a interpretare le esigenze del cliente attraverso un messaggio che colpisca significativamente l’utente? Come si possono conciliare questi due aspetti?
Non credo che debbano essere conciliati, perché di fatto sono aspetti non in antitesi. Si dice a volte che il problema di questo settore dipende anche dal fatto che spesso si fa un lavoro qualitativamente scarso perché si obbedisce ciecamente alle richieste del cliente. Io non ho mai sentito però un cliente chiedere un brutto lavoro: il cliente chiede di avere una campagna di comunicazione efficace che gli faccia vendere più prodotti. Sta a noi poi fare il lavoro più creativo possibile, che possa soddisfare le sue richieste: le agenzie che non sono all’altezza non riescono in ciò. Di solito queste realtà hanno poi una scusa preferita, che è appunto quella di lamentarsi di come la creatività in Italia non sia ben vista dalle aziende o da chi commissiona un incarico. Non è assolutamente vero, altrimenti noi di Leo Burnett non avremmo potuto portare a termine tutto ciò che invece abbiamo fatto.
Lucia Mancini