Il mercato dell’e-commerce in Italia continua a registrare interessanti percentuali di crescita e, nonostante ci sia ancora molta strada da fare, soprattutto dal punto di vista normativo, per allinearsi in maniera costruttiva all’ordinamento europeo, i riflettori sono puntati sul settore, che attrae investimenti e si candida a diventare un possibile volano per l’economia del sistema paese. Delle difficoltà e delle potenzialità dell’e-commerce in Italia abbiamo parlato con il Dott. Stefano Setti, commercialista e collaboratore del Sole 24 Ore. Fondamentale puntare sulla comunicazione e curare gli aspetti del marketing, soprattutto in fase di lancio dell’attività di commercio digitale, senza tralasciare l’importanza delle consulenze legali e fiscali, garanzia imprescindibile della buona riuscita del business. Niente paura, dunque, l’Italia è indietro, ma può recuperare, con gli interessi.
In Europa, il valore dell’e-commerce è risultato essere di 477 miliardi di dollari nel 2015, tenuto in piedi dal Regno Unito, Germania e Francia. L’Italia è al settimo posto, con un valore nel 2015 stimato in 28.8 miliardi di euro. A che punto siamo nella crescita?
Il mercato italiano registra una crescita che va dal 10 al 20% annuo per quanto riguarda l’e-commerce. Ovviamente ci sono periodi che hanno visto aumenti maggiori, come il 2008 e il 2009, dove si avevano incrementi anche del 50% su base annua, ma possiamo dire che negli ultimi anni la crescita si è attestata intorno al 10/20% all’anno. Ovviamente si tratta di un mercato ancora da esplorare, questa crescita annua è dovuta per la maggior parte ai grandi produttori dell’e-commerce, come Amazon e Alibaba, che sono entrati nel mercato italiano. Dunque la crescita non dipende da nuove società che sono entrate in gioco, anche perché ad oggi le disposizioni normative in merito non sono ancora del tutto definite. Sia sotto il profilo fiscale, sia sotto il profilo legale, esistono degli adempimenti piuttosto rilevanti che, se non rispettati, comportano delle sanzioni pesanti. L’e-commerce in Italia non funziona come dovrebbe e potrebbe non perché non siamo bravi a fare e-commerce, ma perché c’è un po’ più di paura ad approcciarsi a questa realtà. Inoltre il cosiddetto Made in Italy non è un insieme di prodotti che si vende bene online, poiché rientra nella sfera degli acquisti emozionali. Soprattutto per i settori di maggiore eccellenza italiana, come la moda, il food e il wine, il cliente preferisce ancora recarsi in negozio e “gustarsi” il prodotto con mano. Su base annua, poi, il food&wine vende online generalmente percentuali molto basse, intorno all’1,5%, e anche per l’abbigliamento di lusso siamo su percentuali ancora basse. I settori più forti per l’e-commerce sono il turismo e il tempo libero, mi riferisco in particolare al settore dei giochi online, con una percentuale pari all’80%.
Il commercio online del Made in Italy ad oggi fatica a crescere oltre confine. Che ruolo gioca il digitale nella partita sull’export?
Affinché i prodotti del Made in Italy siano venduti bene online, occorre che sia realizzata una campagna di marketing abbastanza forte, in primo luogo a livello nazionale, per far capire al consumatore che l’acquisto online equivale all’acquisto in un negozio fisico e anzi offre in più dei vantaggi, come la riduzione dei costi. Il primo passo è dunque una campagna di sensibilizzazione sul tema mirata al consumatore finale, per poi compiere un passo ulteriore e lavorare sull’export. I vantaggi maggiori dell’acquisto online di prodotti italiani riguardano proprio i paesi extraeuropei, come la Cina, il Giappone, gli Stati Uniti, ma se questa informazione non viene comunicata all’esterno, i risultati di vendita continuano a essere deludenti. Tutti continueranno ad acquistare nel negozio e non potrà cambiare nulla.
Sul fronte nazionale appare necessario rivedere la normativa legata all’eCommerce, nata in anni in cui ancora poco si sapeva di commercio elettronico e di procedure digitali. Come colmare il gap rispetto all’Europa?
Bisogna intervenire fornendo delle disposizioni normative un po’ più chiare per il consumatore e per il fornitore stesso, sia sotto il profilo legale che fiscale, riducendo al minimo gli oneri finanziari. Occorre allinearsi al più presto a ciò che accade negli altri paesi europei ed extraeuropei, ossia non prevedere sanzioni troppo elevate in caso di difformità dell’operato del fornitore. Mi riferisco in particolare alla situazione del settore wine: ad oggi la normativa italiana prevede che qualora si voglia vendere il vino, o prodotti soggetti ad accisa, a privati comunitari – l’80% del commercio elettronico indiretto riguarda rapporti tra privati, b2c, business to consumer – si è obbligati ad avere dei rappresentanti fiscali, delle identificazioni dirette ai fini IVA, in tutti i singoli paesi dell’Unione Europea, quindi con dei costi fissi abbastanza importanti dal lato Italia. Bisognerebbe rivedere le norme nell’ottica di andare ad aiutare l’espansione del commercio elettronico e non la sua riduzione. Alle condizioni attuali, possono affacciarsi sul mercato solo i grandi produttori e non quelli medi e piccoli.
Quali sono i settori che stanno beneficiando della maggior parte degli investimenti? Sono in procinto di emergere altre tendenze?
Il settore che all’inizio si è sviluppato maggiormente in Italia è stato quello dell’elettronica, ma ormai questo segmento non ha più un business nell’online, perché è abbastanza coperto. Invece un mercato fiorente al quale si stanno avvicinando in molti è quello del gioco online, soprattutto per quanto riguarda le scommesse. Inoltre, in Italia, un settore che si sta implementando è quello del food&wine, che cresce portando avanti le tipicità della cucina italiana, con diverse società che decidono di investire, anche perché, come ho già sottolineato, questo segmento costituisce l’1,5% nel mercato dell’e-commerce, per cui esistono ampi margini di sviluppo. La particolarità è che purtroppo ci sono le disposizioni normative che creano delle difficoltà dal punto di vista amministrativo e burocratico.
Colossi come Amazon e Ebay possono considerarsi come i marketplace principali nel mondo dell’e-commerce. Che ruolo gioca invece Facebook in questo segmento?
Facebook ha un ruolo fondamentale nell’e-commerce, legato soprattutto alla pubblicità. Il più grosso investimento quando si apre un sito di vendita online è dato proprio dalla pubblicità: l’80% del costo di investimento di un sito di e-commerce riguarda le spese pubblicitarie. Costruire il sito non è nulla in confronto alla necessità di renderlo visibile al grande pubblico e Facebook è il numero uno in questo senso. Tramite Facebook è addirittura possibile effettuare velocemente gli acquisti tramite l’inserimento nella pagina di un marchio dei tasti di chiamata all’azione: il social network diventa sempre di più uno strumento fondamentale per il commercio virtuale.
Il mobile commerce sta diventando una priorità in qualunque tipo di strategia e-commerce. Quali sono i valori aggiunti di questo canale e – considerando l’evoluzione delle abitudini dei consumatori – crede che possa diventare la modalità di consumo principale?
Ultimamente la tendenza è quella di puntare sullo smartphone come principale device di acquisto. Per questo motivo, le imprese stanno puntando moltissimo sull’elaborazione di specifiche app deputate all’acquisto da remoto, quindi direttamente da telefonino. Effettivamente, si punta sul mobile proprio perché ormai è lo strumento che ciascuno di noi ha più a portata di mano per tutto il giorno e dunque il consumatore può essere maggiormente stimolato e incentivato a comprare. Sono convinto che il mobile potrà diventare a breve la modalità preferita dai consumatori per soddisfare le proprie esigenze di acquisto.
Chiunque può aprire un e-commerce?
Chiunque può aprire un e-commerce, ma deve essere ben guidato nell’apertura, soprattutto per quanto riguarda gli aspetti legali e fiscali. A volte si pensa che i costi si riducano a quelli per la creazione del sito, dimenticando la pubblicità e le consulenze. Dunque, sì, tutti possono potenzialmente cimentarsi nell’e-commerce, considerando che aprire un dominio ha costi oggettivamente molto bassi, però non bisogna assolutamente sottovalutare gli altri costi. Devo pagare per rendermi visibile e devo pagare per un consulente esperto, anche perché poi se si sbaglia si rischia di pagare davvero salato in sanzioni. Per rendere di successo una determinata attività ci vuole sempre un investimento importante, anche nel campo dell’e-commerce.