Un Paese sospeso, l’importanza del “sommerso”, delle capacità individuali e collettive. E ancora un incentrarsi solo sul presente, la vittoria della pura cronaca e una crescente familiarità con il digitale: sono questi alcuni degli aspetti che compongono il profilo dell’Italia di oggi secondo l’ultimo rapporto del Censis, l’istituto che si è distinto nel panorama della ricerca sociologica sui mutamenti economico-sociali, di mentalità e di costume del nostro Paese. A fondare questo importante “fotografo” della realtà italiana nel 1964 è stato l’attuale presidente Giuseppe De Rita. A lui abbiamo rivolto alcune domande per capire meglio qual è la situazione nella quale versano l’Italia e gli italiani e per avere un suo parere su alcuni degli aspetti che compongono la nostra quotidianità.
Nel 49° rapporto del Censis presentato a dicembre, emerge un’Italia in letargo, un Paese da “zero virgola”. Lei cosa vede dietro a questa staticità?
Innanzitutto, nei commenti e nell’interpretazione fatti in seguito alla presentazione, la parola “letargo” è stata usata in maniera non corretta. Il rapporto è molto chiaro su tre punti fondamentali. Il primo è che il nostro è un Paese da “zero virgola” perché si muove poco, con crescite da 0,2 o 0,7. Il secondo è che, visto che si muove poco, l’Italia è in una sorta di limbo, non va né avanti né indietro, non acquisendo nuova fisionomia nonostante la vecchia vada a sgretolarsi. Da qui il terzo punto: in questo limbo i singoli – la collettività – entrano in letargo esistenziale perché pensano solo a loro stessi, in un’ottica da giorno per giorno. Questo disagio esistenziale non è lo stato di una nazione, ma lo stato di una cittadinanza che, non vedendo né aumenti consistenti né una speranza di uscire da questo limbo, vive in letargo. Sono i singoli dunque a essere in letargo, non l’economia nazionale.
Nel rapporto sembra che il ponte sul futuro possa essere individuato nel “resto” della società, quello che sfugge al potere della politica e all’influenza superficiale dei mass media. Perché è in questo settore che dev’essere trovata la spinta per il Paese per ripartire?
Perché ci rimane solo il “resto”, non abbiamo altro. Quando incontriamo qualcuno e gli chiediamo come va, lui risponderà “Mi va tutto male: il capo ufficio mi maltratta, mia moglie mi tradisce, la macchina si è rotta ecc…”. Però poi se gli chiediamo “E il resto? Il resto come va?”, lui risponderà “Ah, il resto va bene”! Tutto quello che non fa parte della prima fila dei problemi non viene considerato interessante, ma poi è proprio quella parte che continua a funzionare e ad andare avanti. Nel ’69 noi abbiamo scoperto la forza dell’economia sommersa, ma a quel tempo non ci ha dato retta nessuno perché tutti concentrati sulla grande impresa, come se la piccola impresa locale non servisse a niente. Ma è stata proprio questa poi, il “resto”, che ha “fatto” l’Italia degli anni successivi.
C’è una crescente familiarità degli italiani nei confronti dello strumento digitale. Così non è però nell’ambito della pubblica amministrazione, che da questo punto di vista è piuttosto indietro rispetto all’Europa. Come si può invertire questa tendenza italiana?
È una situazione difficile perché non stiamo parlando di procedure: le procedure possono essere cambiate. È un fatto di funzione tradizionale attribuita all’amministrazione. Così come fu creata da Cavour in poi, l’amministrazione era una seconda battuta della società, non era mai l’inizio dell’innovazione, ma semmai la sua conclusione. Questo è presente ancora oggi nella testa dei burocrati italiani, che non sentono di dover per forza essere la punta della freccia dell’innovazione. Altre amministrazioni nel mondo sono stati motori da questo punto di vista, ma in Italia no. C’è un meccanismo di dovuta lentezza rispetto alla rapidità del digitale che non è soltanto un deficit di intelligenza personale, ma è frutto di una scelta antica della funzione storica e sociologica dell’amministrazione, che ha da sempre un ruolo di sintesi, di seconda battuta e di garanzia, ma non di innovazione.
Durante un dibattito svoltosi a dicembre a Roma, lei ha indicato nella disintermediazione uno dei difetti principali di internet, colpevole in questo modo di divulgare solo informazione ma non conoscenza. Esclude dunque la possibilità di riprodurre in questo strumento una dialettica che possa invece portare proprio alla conoscenza?
Qualsiasi strumento può portare alla dialettica, ma bisognerebbe soffermarsi su due aspetti di queste nuove figure di comunicazione. La prima è che sono sostanzialmente solipsistiche. Ognuno può scrivere quello che vuole nel proprio blog o su Twitter, ma può anche insultare pesantemente qualcuno… tanto è solipsista! Se si fa un viaggio nel sottobosco del web si trova della ferocia infernale. Questo fa capire che c’è molta autoreferenzialità: quello che penso lo posso dire ed è la verità. In questo contesto è molto difficile fare dialettica. La seconda cosa è che, bene che vada, un dialogo si apre ma tra simili, tra persone che mostrano di non aver bisogno di dialettica, perché si è in un circuito chiuso. Questi aspetti mi fanno pensare che nel sottobosco del web non si potrà mai far dialettica.
Per quanto riguarda il reperire informazioni dal web invece? Tra una persona che decide di informarsi tramite internet e una che ancora predilige i media tradizionali, secondo lei qual è quella sulla “giusta via”?Personalmente, io non mi fido di una notizia che trovo sul web se non so chi ce l’ha messa. Non conoscendo chi aggiunge contenuti sul web, non sapendo se ha la capacità di gestire uno specifico argomento, tendo sempre ad evitare di connettermi. L’unica vittoria possibile di internet su questo argomento non è la qualità della notizia, ma la rapidità con cui la si può avere. Il singolo, e tutto il sistema digitale, vive di rapidità, di immediatezza e di non ripensamento.
A questo proposito, non sarebbe utile invece educare sin da subito, in età scolastica, le giovani generazioni al miglior modo di consultare internet?
Credo che siano i giovani a non essere interessati. Ai giovani non interessa sapere le sfaccettature complesse di un dato, di un fenomeno. A loro serve un’informazione, magari banale, e poi basta. Al giovane, soprattutto quando si avvicina al web, non interessa il contenuto della notizia, ma la rapidità con cui va a contatto della notizia.
Quello di accontentarsi dell’informazione e di non cercare la conoscenza non è però un difetto solo dei giovani, che per fortuna non sono tutti così. Magari si potrebbero, appunto, educare i più giovani a usare internet come uno strumento da cui partire per cercare la conoscenza.
Così come la descrive lei è una situazione perfetta, ma sorge subito una domanda: chi si occupa di educarli? In fondo stiamo parlando di una situazione così nuova che non c’è ancora gente che se l’è consolidata dentro. Se qualcuno conosce bene un argomento del genere, se conosce la capacità di questo strumento, è già un “fanatico” e quindi non educa alla complessità dell’informazione e della conoscenza ma solo alla rapidità.
Torniamo al rapporto del Censis. Secondo tale rapporto, il vero Made in Italy è ora quello enogastronomico. Secondo lei, l’Expo è stata un’occasione performante per promuovere al meglio questa nostra ricchezza?
Sicuramente è stata l’occasione per la dichiarazione di un primato italiano, che non è il piatto meraviglioso, ma tutta la filiera che sta dietro.
Perché secondo lei gli altri settori del Made in Italy hanno perso terreno? Penso alla moda, ad esempio, che ha reso grande la storia del prodotto italiano.
Il meccanismo del Made è un ciclo, non ha tempi eterni. Dobbiamo dare per scontato che questo nuovo Made in Italy, giocato sul settore dell’enogastronomia, sarà trainante per altri cinque o dieci anni e poi decadrà. Non si può pensare che per altri trent’anni tutti si entusiasmeranno per il cibo italiano.