Cosa può fare un uomo solo di fronte a una platea sterminata ed esigente, pronta a massacrarlo al primo segnale di incertezza, se l’unica arma in suo possesso è un naso rosso da clown? Tutto, quell’uomo può fare tutto. Perché quel naso rosso è il catalizzatore della forza più dirompente dell’Universo messa a disposizione dell’uomo, l’ironia, e l’uomo in grado di domarla e padroneggiarla è capace di soggiogare il suo uditorio senza difficoltà, "drogandolo di endorfine".
Sembrano i prodromi di una battaglia epica tra individuo e società, ma in realtà stiamo parlando del trionfo di Sergio Spaccavento, direttore creativo di Conversion, che, con il suo intervento "The madman who tried to be a clown" – primo italiano protagonista di un seminario individuale – ha conquistato la platea gremita del Forum al Palais des Festivals di Cannes Lions 2016.
Sergio Spaccavento, primo italiano a tenere un seminario individuale a Cannes, su un palcoscenico certamente non generoso con i nostri rappresentanti e non solo: che tipo di esperienza è stata quella alla kermesse di quest’anno?
Il palcoscenico di Cannes non è generoso con nessuno: la platea è composta da professionisti internazionali di alto livello, sia per il comparto creativo che per quello manageriale. Prima l’appuntamento era più orientato solo verso i creativi, adesso ha un’audience molto più larga e molto più tecnica, tant’è che il focus si è spostato anche su altri aspetti, come entertainment, health e innovation. Nel mestiere della comunicazione, la creatività è un motore vero ma non è sufficiente per far funzionare un’idea. Chi partecipa alla kermesse di Cannes si aspetta di assistere a speech di altissimo spessore e ovviamente questo mi ha causato non poca ansia da prestazione. Non era la prima volta che calcavo un palcoscenico importante di fronte a un pubblico esigente ma, per questo tipo di evento, che rappresenta la manifestazione più quotata al mondo per il settore, ovviamente il senso di responsabilità è stato maggiore. Per fortuna, non ho portato questa agitazione sul palco, sono stato anzi molto fortunato nel non rendermi conto fino in fondo di quello che stavo facendo e del pubblico che avevo di fronte. A dirla tutta, l’uditorio mi è sembrato particolarmente reattivo: a volte non si riesce a trovare una vera connessione con le persone e si finisce per perdere per strada la loro attenzione, invece in questo caso, il forum era gremito e i partecipanti rispondevano in maniera straordinaria alle mie considerazioni. Il mio intervento riguardava l’umorismo nella comunicazione, per cui era fondamentale riuscire a coinvolgere gli ascoltatori, facendoli ridere. E il pubblico rideva davvero, anche perché il mio obiettivo era proprio quello di dimostrare quanto la risata sia un’arma vincente in comunicazione. Far sorridere serviva ad aumentare la memorabilità e l’attenzione su quanto stavo dicendo. Dagli articoli della stampa internazionale che ho reperito online, mi sono reso conto che l’intervento è riuscito a coinvolgere tutti in maniera trasversale. Ha funzionato perché mi sono preso in giro, ho scherzato con l’accento, colpendo nel modo giusto il pubblico multisfaccettato del festival.
L’umorismo è un’arma a doppio taglio, non funziona per tutti allo stesso modo: esiste una diversificazione culturale rispetto a ciò che fa ridere e su cosa non è possibile assolutamente fare ironia?
La diversificazione culturale c’è eccome e la situazione varia da nazione a nazione. Ad esempio, il black humor difficilmente funziona in Italia, ma in nazioni come il Giappone o alcuni Stati dell’America Settentrionale è invece molto sfruttato, perché risulta la maniera più divertente per parlare ad esempio di problemi che un prodotto X può andare a risolvere, sebbene la messa in scena della situazione risulti piuttosto “drammatica”. Questo tipo di umorismo può essere molto spesso sgradevole o spaventare, specie se ha a che fare con argomenti tabù come quello della morte. Teoricamente l’umorismo dovrebbe esorcizzare la paura della morte, è per questo che è nato in fondo, ma persistono resistenze rispetto a temi specifici, come le credenze religiose o la morte, su cui non è furbo lavorare in maniera umoristica, perché in quei casi l’humor allontana invece di creare empatia con i valori del brand. L’analisi dunque deve essere fatta da nazione a nazione e da cultura a cultura, considerando anche le sottoculture, che non sono di certo meno impattanti per quanto riguarda la ricezione di un messaggio.
In pubblicità dunque la carta umoristica va giocata con estrema cognizione di causa?
L’umorismo non può essere utilizzato per qualsiasi settore merceologico, ci sono alcuni segmenti – il lusso o la cosmesi, per dirne un paio – per i quali se devo vendere un modello aspirazionale non vale la pena distruggere un determinato tipo di mondo con l’ironia. In quel caso infatti verrebbero meno i punti di riferimento e sarebbe impossibile sognare. Per assurdo che possa apparire, l’umorismo è particolarmente legato alla ragione, alla razionalità: se devo farti sognare e immaginare un successo, un’elevazione, un miglioramento di status, sicuramente non posso fare affidamento sullo strumento dell’ironia. L’umorismo può essere utilizzato quando ci si rende conto che l’abbinamento tra storiella divertente e prodotto o servizio è quello corretto dal punto di vista della reazione. Non si può fare una battuta fine a se stessa e poi attaccare arbitrariamente in coda il messaggio pubblicitario, non funziona, non rimane in mente. Per usare l’ironia, anche esagerando, devi essere certo, in base a studi di mercato ben precisi e analisi del target, che il tema sia accettato da quel determinato tipo di pubblico. Ad esempio, io ho lavorato a lungo per Ceres, dando alle campagne un’impronta molto comica, specie sui social, facendo satira anche politica e esagerata. Un utente poteva benissimo reagire male, pensando “Oh, ma sei un’azienda danese, come ti permetti di fare satira su Berlusconi? Pensa alla tua di nazione, – c’è del marcio in Danimarca, in effetti (ndr) – noi i panni sporchi ce li laviamo in casa”. In realtà noi conoscevamo perfettamente il target di riferimento, sapevamo quanto fosse impegnato politicamente e dall’indole rivoluzionaria, di conseguenza eravamo abbastanza certi che i nostri interlocutori avrebbero reagito in maniera positiva. Con queste premesse, gli utenti apprezzano il coraggio di un’azienda nel prendere posizione: se poi l’azienda riesce a farlo in maniera scherzosa e non dall’alto di un pulpito, facendo riflettere allo stesso tempo, ecco allora che si fa voler bene davvero dalle persone che recepiscono il messaggio. Se questo tipo di campagna l’avesse portata avanti Barilla probabilmente non avrebbe funzionato, perché Barilla non ha una storia da ribelli come Ceres. In passato, Ceres esagerava nella “sporcizia” della rappresentazione, in seguito, quando ho preso in mano la comunicazione, il brand, continuando a esagerare nel mettere sotto gli occhi di tutti le follie umane, ha assunto definitivamente un tono di voce corretto e condivisibile dal target.
Entro il 2019, l’80% del traffico da mobile sarà costituito dai video, mentre il 95% dei video caricati su internet nell’ultimo anno sono stati pensati per intrattenere e i 2/3 dei video sono di intrattenimento e divertimento: i dati confermano una stretta correlazione tra il successo di una campagna pubblicitaria e la ricerca di un registro ironico?
La verità è che i social sono dei media al pari della televisione, addirittura con una penetrazione ancora più rilevante su determinati tipi di target. Si tratta di più media, che ciascuno di noi consulta più volte al giorno. Su questi nuovi canali, la pubblicità non può seguire più le modalità tradizionali: deve interessare e fare intrattenimento. Le basi dell’intrattenimento sono la musica, episodi assurdi e fuori dal comune da vedere assolutamente, il sesso, la violenza e l’umorismo. Da millenni, fin dalla nascita del teatro, le rappresentazioni si basano proprio su questi elementi e i video sui social di oggi vanno solo a inserirsi nel solco di una modalità ormai consolidata. Per costruire qualcosa tra un brand e i suoi interlocutori, è necessario creare un carattere per ogni azienda, costruendo un vero e proprio personaggio, rendendolo interessante, dandogli un posizionamento e da lì lavorare con un dialogo continuo con il consumatore. Gli italiani sono i primi al mondo per l’utilizzo dei tablet, ma li acquistano esclusivamente per guardare i video e consultare Facebook o giocare: questo significa che se non hai un contenuto interessante non sei rilevante per nessuno su questo tipo di mezzi. Certo, nel nostro paese siamo ancora indietro a causa dei famosi problemi di banda larga, però gli investimenti stanno cambiando direzione. Continueranno ad esistere i media tradizionali, ma già dal 2017 ci saranno dei notevoli salti in termini numerici sui nuovi media.
Ma è possibile “misurare” l’impatto di un contenuto divertente in termini d’advertising?
Le citazioni sui social sono facilmente misurabili e anche l’engagement rate è una cosa abbastanza credibile nell’ambito delle ricerche di mercato. Per l’umorismo, un dato di cui tenere conto è senza dubbio la condivisione. Ciascuno di noi conosce almeno una barzelletta e nessuno ci ha obbligato a impararla a memoria: perché ce la ricordiamo allora? Gli uomini sono animali sociali che cercano di raggiungere l’appartenenza di gruppo e questa appartenenza spesso la si ottiene con la simpatia. Se sei in grado di far ridere qualcuno, facendogli rilasciare endorfine, è più facile che questo qualcuno ti apprezzi e scelga di invitare te a cena invece del tuo ipotetico “gemello serioso”. La condivisione di un video divertente sui social dipende proprio dalla volontà di voler far ridere altre persone per stabilire un feeling con loro: gli amici apprezzano il contenuto condiviso, cliccano like, ricondividono e tu ti senti appagato, perché sei accettato dal gruppo. È come dire: “Ehi, ragazzi, la sapete l’ultima?”: si tratta della stessa dinamica sociale, quella che innesca il passaparola così come la portata virale di un determinato messaggio sul web.
Luigi Pirandello interpretava l’umorismo come "sentimento del contrario": qual è la concezione dell’umorismo di Sergio Spaccavento?
L’approccio all’umorismo che utilizzo è molto scientifico, nel senso che è ben presente la componente creativa, ma l’umorismo può essere piegato a degli obiettivi assolutamente di commercio. Pirandello rileva la differenza tra comico e umoristico e porta avanti un’analisi a livello più profondo: ciò a cui hanno portato i miei studi, potrà far rabbrividire, è invece qualcosa di molto più matematico. Si tratta di formule, di un’applicazione dei meccanismi dell’umorismo che io ho suddiviso rubacchiando qua e là, dalle tecniche di stand up comedy fino alle tecniche di costruzione delle barzellette. Ho razionalizzato tutti questi elementi rendendoli scientifici e pertinenti ad una scienza matematica. Questi studi conducono a utilizzare in maniera scientifica la leva dell’umorismo per far vendere. C’è creatività nel talento di riuscire a confezionare bene un contenuto divertente, però c’è dietro molto più studio e pensiero matematico di quanto si possa immaginare, perché altrimenti senza i meccanismi non esisterebbe la creatività come mestiere. Non si può vivere solo aspettando il colpo di genio, bisogna lavorare sodo per costruirlo.
Elisabetta Pasca