Un’idea. Semplice. Che diventa realtà grazie alla tecnologia. E conquista in poco tempo migliaia di persone in giro per l’Italia. Se dovessimo ridurre all’osso la faccenda del grande successo dell’Umarell, l’omino in 3D realizzato dalla start up milanese TheFabLab, suonerebbe più o meno così. Invece non ci accontentiamo di una sintesi imperfetta: per capire il futuro che ci attende vogliamo immergerci nei dettagli della case history dell’anno, facendoci raccontare da Massimo Temporelli, divulgatore scientifico, Presidente e co-founder di TheFabLab, laboratorio all’avanguardia che coniuga stampa 3d, robotica e IoT per rivoluzionare la progettazione e la realizzazione dei prodotti, la storia incredibile della statuetta che oggi tutti vogliono, l’Umarell appunto. In soli 14 centimetri si concretizza un concetto, quello che sta dietro al comportamento dei celeberrimi vecchietti italiani abituati a riempire i lunghi pomeriggi del post pensionamento guardando i cantieri dei lavori in corso, elargendo critiche più o meno ponderate: quanto ci sentiremmo meno soli al lavoro e quanto potremmo essere più produttivi se solo ognuno di noi avesse accanto al proprio computer questo signore in miniatura, che veglia sul nostro operato, che ci responsabilizza e che ci ricorda che i cambiamenti e la tecnologia possono diventare, in maniera divertente, intelligente e innovativa, le chiavi più giuste per andare avanti senza cancellare ciò che abbiamo alle spalle.
Ci può raccontare in che modo il famigerato Umarell è approdato a TheFabLab?
Il concetto di FabLab nasce nel 2001 al MIT di Boston, ma dobbiamo attendere il 2011 per avere il primo FabLab italiano, allestito a Torino, presso le OGR, in occasione delle celebrazioni per i 150 anni dell’Unità d’Italia, nell’ambito del padiglione “Stazione Futuro”. Fu allora che decisi di realizzare un FabLab anche a Milano e, faticosamente, dopo quasi tre anni, all’inizio insieme a Francesco Colorni e Giovanni Gennari, due miei grandi amici, ho messo in piedi il progetto che dal 2013 ha continuato a crescere con tenacia. A Giovanni Gennari è subentrato in seguito Bernardo Gamucci: lui è un designer, ha lavorato nel packaging, nel marketing, quindi ha una capacità progettuale molto orientata al mercato. A un certo punto, abbiamo pensato di realizzare un nuovo prodotto orientato al mercato e non solo ai nostri clienti: Bernardo in quel periodo stava lavorando alla realizzazione di un plastico per uno studio di architettura, all’interno del quale dovevano essere inseriti anche degli omini. E gli omini appoggiati vicino alla sua scrivania, man mano che li stampava, gli hanno fatto venire in mente che sarebbe stato bello se ci fosse stata sempre una persona, reale o metaforica, a vegliare sul nostro computer mentre lavoriamo. E da lì, il passaggio all’umarell è stato immediato, anche perché la figura del vecchietto che guarda i lavori appartiene nel profondo alla cultura italiana. Poi è seguita una sequenza di miglioramenti della figura e la messa a punto dello slogan, che ha avuto un ruolo fondamentale nella riuscita del progetto. Molte persone infatti ci chiedono “ma davvero l’umarell aumenta del 10% la produttività?”! Al di là del prodotto in sé, è molto bello che un laboratorio di innovazione digitale possa uscire e andare sul mercato, perché noi pensiamo che questo caso possa essere un esempio di come sarà il mondo che deve venire. Con un minimo di volontà, creatività e innovazione, i FabLab possono trasformarsi in concrete opportunità di business, portando sviluppo nel nostro Paese. Io spero di finalizzare gli accordi con la GDO, di uscire anche fuori dai confini nazionali e di esportare l’idea in altri paesi come ad esempio la Francia e l’Olanda: la figura del vecchietto che guarda il cantiere criticando e dicendo “Io l’avrei fatto meglio!” esiste anche all’estero, se riesci a capire il messaggio, quello arriva forte e chiaro dappertutto, infatti qui da noi abbiamo ricevuto migliaia di richieste nel giro di pochissime settimane.
Vi aspettavate questa ondata di entusiasmo e successo per il prodotto?
No, zero. Devo ammettere che ho voluto fortemente anticipare l’uscita del prodotto rispetto ai miei soci, che invece volevano aspettare l’anno nuovo per fare le cose per bene e con calma. Io per natura sono più frettoloso: alla fine è andata alla grande, al di là di ogni pronostico o aspettativa, ma ne abbiamo pagato le conseguenze perché non avevamo abbastanza potenza di stampa e ci siamo dovuti attrezzare di conseguenza il più velocemente possibile. È accaduto tutto in maniera rapidissima, adesso riusciamo a produrre circa 250 pezzi al giorno, anche se la richiesta del mercato arriva anche fino a 300/400. Il fatto è che all’inizio avevamo appena cinque o sei stampanti che producevano 30 omini, poi abbiamo dovuto comprare le nuove stampanti e programmarle per stare dietro alla richiesta e oggi produciamo più di 1000 UMARELL alla settimana. Questo successo è una di quelle sorprese che ti lasciano davvero a bocca aperta, felice, perché sono evenienze che davvero capitano raramente, soprattutto nel nostro campo. Nella vita di un professionista spesso si riesce a malapena a raggiungere gli obiettivi previsti, figuriamoci quelli del tutto inaspettati.
Qual è il futuro dell’innovazione in Italia secondo Massimo Temporelli?
Essendo più un divulgatore che un imprenditore, ovviamente ragiono moltissimo su questo argomento. Vedendo cosa succede nel nostro laboratorio, il mix tra atomi e bit per l’Italia sarà fondamentale, poi ognuno lo declini pure come vuole. L’artigianato e le PMI si devono digitalizzare, certo, ma non nel processo dell’informazione, perché quel tipo di trasformazione dovrebbe essere già avvenuto e metabolizzato da tempo. Server, posta e cloud sono argomenti che appartengono alla preistoria. Io parlo di contaminare proprio la fabbrica, inserendo macchine che dialogano con Internet, che da Internet possono essere controllate e che possono fare diagnosi da remoto sull’andamento del mercato e del retail. Questo tipo di rivoluzione può essere fatta da noi italiani, non è costosa, se non in termini culturali, purtroppo. Si tratta infatti di ripensare i propri processi produttivi in termini digitali, ad esempio collegando il server alla fabbrica e non solo agli uffici. La PMI e il mondo degli artigiani, con l’aiuto della robotica, delle stampanti 3d e dell’Internet delle Cose, piano piano, insieme a risorse di eccellenza come i FabLab più accreditati, possono cominciare a dialogare in maniera fruttuosa per portare, entro i prossimi 5 anni, a cambiamenti veramente notevoli e rilevanti, ottenendo reali segnali di ripresa economica per il nostro Paese. Qualcosa sta già avvenendo adesso. Le aziende italiane che operano all’estero sono internazionalizzate e digitalizzate e si mettono in evidenza con un trend positivo. Ci sono dei buoni esempi. Così come esistono delle regole da seguire per promuovere digitalizzazione e internazionalizzazione.
Esiste una formula da seguire per sostenere al meglio questo tipo di cambiamento?
Non esistono formule magiche, è sufficiente assumersi la responsabilità del cambiamento in un momento storico in cui il cambiamento è una necessità imprescindibile, non una semplice opzione. Ovviamente occorre scegliere dei professionisti preparati per sostenere il tipo di trasformazione che si deve mettere in atto. Un imprenditore dovrebbe chiedersi se vuole un segno meno o un segno più davanti ai numeri e prendersi quindi la responsabilità di agire nella maniera più adeguata per raggiungere un risultato positivo. Si pensa che il digitale sia una questione tecnica, ma non è vero. Il digitale è un’attitudine, è pensare che la trasformazione è necessaria, sì, ma sapere che può essere anche divertente. Nella cultura italiana, purtroppo, l’idea del passato glorioso spesso ci tarpa le ali. “Non possiamo mica mettere in discussione l’Impero Romano o il Rinascimento!”. Però noi viviamo nel 2018 e dunque, ad esempio, il modo di pensare una città non può più essere quello degli antichi romani. Cambiare non significa certo distruggere, ma è importante almeno contaminare. Non vogliamo certo far passare un’autostrada sopra al Colosseo, ma, come i francesi e gli americani sanno bene, il paese deve andare avanti, non bisogna cristallizzarsi nel passato a discapito del futuro. Partiamo dalle tradizioni, che sono fondamentali e, anzi, rappresentano un asset per il nostro futuro, per pensare a una rivoluzione dall’approccio rinascimentale che sia in grado davvero di smuovere le cose. Milano in questo senso è un esempio virtuoso: la città sta vivendo un’epoca d’oro in cui ogni cosa viene vista non come una minaccia ma come uno stimolo a fare meglio, in una partita al rialzo, che deve davvero coinvolgere la Penisola tutta. Se sarà così, non ce ne pentiremo.
Elisabetta Pasca