“Omicidio all’italiana”, l’ultima fatica cinematografica di Marcello Macchia, alias Maccio Capatonda, è nelle sale italiane da pochi giorni ma ha già riscosso un apprezzamento incredibile, facendo parecchio buzz e raccogliendo critiche entusiaste. Il film mette alla berlina, con il consueto irresistibile spirito stralunato e a tratti grottesco che è il marchio di fabbrica dell’attore comico abruzzese, l’attitudine al voyerismo verso i casi di cronaca nera e la sovraesposizione mediatica dei drammi e della dimensione privata, temi attualissimi in quest’epoca di tv del dolore, tour dell’orrore, influencer e “stories” condivise fino al parossismo. Tra i soggettisti e gli sceneggiatori della pellicola, troviamo Sergio Spaccavento, ECD dell’agenzia omnichannel Conversion, primo italiano a tenere un seminario individuale, dedicato al tema dell’umorismo, durante Cannes Lions 2016. Il racconto dell’esperienza cinematografica di Spaccavento dà l’avvio ad una riflessione più ampia sulla degenerazione della comunicazione, sulle parabole della narrazione e dello storytelling a cavallo tra pubblicità e cinema, per definire il ruolo dei creativi nel riconoscimento pieno della loro professionalità. Perché, sì, certo, far ridere è una cosa seria.
Sergio Spaccavento ritorna al cinema come co-soggettista e co-sceneggiatore per il nuovo film di Maccio Capatonda “Omicidio all’italiana”. L’ossessione per la fama e la celebrità, anche a costo di sdoganare il macabro e l’orrore o di inventarlo come accade nel film, rappresenta un vulnus che imperversa nella comunicazione di oggi, dalla tv ai social media. I 15 minuti di celebrità di Warhol sono diventati troppo pochi?
La verità è che 15 minuti nel 2017 sono anche tanti, forse troppi. Ormai siamo passati dal presenziare agli eventi e viverli senza filtri, all’urgenza di comunicare al mondo la nostra partecipazione documentandola con foto, video e geolocalizzazione, e siamo infine arrivati al bisogno primario di essere noi l’epicentro dell’evento raccontato da una costellazione di selfie infiniti dove dobbiamo risultare protagonisti della realtà, a caccia di like, di sentiment positivo, di invidia, di richieste di amicizia e di vanto e ostentazione della qualità della nostra vita. Questo desiderio di unicità e protagonismo è ormai una patologia diffusa, si è passati dal voler diventare calciatore o velina a voler essere influencer o gente dello spettacolo con talenti nascosti e probabilmente inesistenti. Il detto “nel bene e nel male purché se ne parli” se è stato debellato dalla scienza della comunicazione, invece sembra aver riacquisito maggior vigore nelle storie personali, e questa deviazione, a mio avviso, non può portare a nulla di buono o di moralmente accettabile. Per tutto questo è giusto che sia oggetto di satira, nella speranza di castigare ridendo mores.
Il salto dalla pubblicità al cinema per un creativo fino ad alcuni anni fa poteva apparire quasi un’acrobazia pericolosa, invece oggi la connessione tra i due linguaggi si è fatta più agevole, cosa è cambiato rispetto al passato, i creativi hanno acquisito una consapevolezza nuova?
Penso che si sbagli nel credere che sia un iter naturale, un creativo pubblicitario non lavora nella comunicazione con finalità propedeutiche a un linguaggio diverso. Sono semplicemente discipline diverse, simili nel comune denominatore dello storytelling, ma restano sempre discipline diverse, entrambe rispettabili, entrambe scientifiche e nobili dove è l’idea e la bravura di chi sa raccontare a fare la differenza. La connessione tra le due arti non è altro che una contaminazione necessaria richiesta dal mercato contemporaneo, lo sviluppo del branded content ha richiesto conoscenze e meccanismi che sono propri di linguaggi diversi, ma appunto per questo non sempre funziona. Il voler far tutto e improvvisarsi poliedrici non paga, sono discipline che vanno sviluppate parallelamente da professionisti con impegno ed esperienza.
Ha dichiarato che un film è l’esempio perfetto di uno storytelling ben strutturato: cosa può suggerire allora il cinema alla pubblicità per perfezionare sempre di più la propria narrazione?
Lo storytelling è l’arte di raccontare una storia al meglio, ma così come nel cinema, così come nella letteratura e così come in pubblicità deve contenere un messaggio dell’autore o del brand, e quel messaggio deve essere cristallino e capito dal pubblico, altrimenti resta un esercizio creativo ma senza una vera funzione di comunicazione. Quindi suggerisco di cercare la semplicità di espressione, la linearità di una storia, la familiarità degli argomenti e l’onestà della storia, infatti il pubblico, il target o l’audience che sia, è abbastanza maturo da accorgersi se una storia è approssimativa o truffaldina. Oggi più che mai l’ingaggio attraverso intrattenimento va guadagnato. Ogni secondo di visualizzazione volontaria di streaming, ogni minuto di attenta lettura presuppone interesse che può derivare solo dalla tecnica di intrattenimento.
Stabilire una relazione con il pubblico è l’obiettivo cruciale sia del racconto pubblicitario sia di quello cinematografico, ma quanto diventa complicato ottenere la sospensione dell’incredulità a seconda della piattaforma che veicola un determinato messaggio?
Credo che il concetto di piattaforma sia ormai superato, oggi l’intrattenimento ce lo scegliamo volontariamente in tutti i media e nessuno ci costringe a guardare qualcosa come nel finale di Arancia meccanica, quindi più che di complicazione va considerato come un obbligo professionale da cui non si può transigere. E al pubblico poco interessa se lo fruisce su uno smartphone sul tram, sullo schermo di un laptop a letto o sul grande schermo in un multisala. Il pubblico crede e vuole credere alle storie se ben raccontate, al massimo sceglierà istintivamente e col buon senso la piattaforma giusta in base al momento di fruizione e al suo contenuto.
Il primo film di Maccio, “Italiano Medio”, descriveva in chiave comica e grottesca il dualismo conflittuale tra impegno civile e disimpegno, mentre ora “Omicidio all’italiana” scava nel voyerismo televisivo più becero: quale tema affronterebbe per chiudere il cerchio, in una sorta di trilogia ideale?
La risposta a questa domanda è meglio che la dia Marcello (n.d.r. Maccio Capatonda) ora lo chiamo, un attimo… un attimo ancora… niente ha il telefono spento. Voi nel frattempo guardate il film, a mia madre è piaciuto molto, quindi pare che meriti.
Elisabetta Pasca