Le recenti politiche di welfare, comunitarie e nazionali, si sono positivamente orientate nel riconoscere il ruolo strategico della formazione – nei diversi livelli manageriali e non — per rafforzare la competitività della nostra economia e dare nuove competenze alle persone, che devono essere sempre più al centro dei processi di cambiamento. Si sta finalmente riconoscendo – pur tra mille difficoltà e scarse risorse – il ruolo strategico che la "buona formazione”, intesa come processo
e non più come fatto occasionale, può avere per garantire livelli elevati di competitività del sistema Italia ed essere decisiva per raggiungere gli obiettivi di crescita economica.
Pertanto, in una fase in cui si assiste a un quotidiano dibattito sulla gravità della crisi economica e sui suoi effetti sul sistema produttivo, può risultare utile svolgere alcune considerazioni in merito al ruolo cruciale che l’investimento nella ricerca, nell’educazione e nell’alta formazione può svolgere non solo e non tanto per il superamento della crisi, quanto per lo stesso sviluppo del nostro Paese.
La nostra realtà
Dobbiamo constatare purtroppo come nel nostro Paese, anche a livello del sistema produttivo, vi sia ancora una scarsa consapevolezza sul ruolo che la formazione può avere per una crescita e una valorizzazione delle risorse umane e in definitiva per il successo dell’azienda. E’ noto che ciò dipende, oltre che da ritardi e limiti culturali, dal fatto che la struttura produttiva italiana è largamente fondata sulle imprese di minori dimensioni, le quali in genere non sono in grado (o non ritengono) di assumere soggetti con alta qualificazione e/o con significativi profili gestionali. Del resto, il grado di diffusione della formazione dipende da condizioni di carattere strutturale, non modificabili nel breve e nel medio periodo.
Anche il nostro Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano di recente a Trieste, in un intervento preso la Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati si è espresso in merito a questa discussa realtà: “La ricerca, l’educazione, l’alta formazione, sono garanzie per il nostro avvenire. Dobbiamo sempre avere fortemente presente questo dato”, ha aggiunto:“’Mi rifiuto di credere che la ricerca stia annegando. Mettiamocela tutta, recuperiamo tutte le nostre risorse, anche quelle masse di giovani fuori dall’occupazione e dall’attività di formazione e addestramento che ci vengono segnalate dall’Istat”.
Dati quantitativi: confronto estero
Per quanto riguarda la ricerca, occorre evidenziare che l’Italia spende in questo settore l’1,1% del proprio Pil contro una media europea dell’1,5% e contro il 2,8% degli Stati Uniti e il 3% del Giappone. Anche relativamente alle risorse destinate complessivamente al sistema educativo-formativo, l’incidenza della spesa sul Pil è per il nostro Paese pari al 4,7% contro una media europea del 5,2% (ma nei Paesi scandinavi tale percentuale oscilla tra il 6,5% e l’8,6% del Pil).
Al di là dei dati quantitativi, che comunque ci vedono svantaggiati rispetto alle realtà più evolute con le quali dobbiamo confrontarci, se approfondissimo nel merito come tali risorse vengono utilizzate nel nostro Paese e i risultati che si ottengono, il divario apparirebbe ancora più pesante. Se il nostro Paese vuole recuperare il gap rispetto ai suoi competitor, che non sono più solo quelli tradizionali del vecchio G7, ma comprendono ormai realtà emergenti come quelle dei Paesi Bric (Brasile, Russia, India e Cina), non può certo pensare di farlo, come purtroppo sta accadendo, riducendo gli investimenti nel sistema dell’istruzione, della formazione superiore e della ricerca.
Rapporto sulla Formazione continua
La formazione continua in Italia è uno strumento ancora poco utilizzato, soprattutto rispetto al resto dell’Europa. È ciò che emerge dall’ultimo “Rapporto sulla Formazione Continua” presentato dal Ministero del Lavoro della Salute e delle Politiche Sociali e realizzato in collaborazione con l’Isfol.
Con cadenza annuale il documento fotografa il “sistema” di formazione continua italiano. Rispetto allo scorso anno non si evidenziano incrementi significativi dell’investimento delle imprese nelle iniziative formative rivolte ai propri dipendenti. Il tema è fin troppo noto: in un tessuto produttivo composto nella stragrande maggioranza da piccole e piccolissime imprese, lo sviluppo delle iniziative formative formalizzate (tradizionalmente intese) avviene con grandi difficoltà. Attraverso i Fondi Interprofessionali sono state mobilitate risorse finanziarie in precedenza destinate anche ad altri scopi. Oggi, con la loro azione, quote crescenti dei contributi versati dalle imprese e dai lavoratori si concentrano sul sostegno ai Piani formativi condivisi tra le Parti Sociali.
Nel periodo 2008-2009 (ultima rilevazione effettuata) le adesioni ai Fondi Paritetici Interprofessionali hanno registrato una crescita sia dal punto di vista delle imprese aderenti (+8,8%) che dei lavoratori iscritti (+10,2%): in complesso vi aderiscono 524mila imprese, pari al 42% delle imprese private italiane e il 59% dei lavoratori (pari a 6milioni 730mila).
In generale le imprese italiane hanno speso per le attività di formazione continua l’1,3% del costo del lavoro. Si evidenzia, rispetto al passato, una riduzione del gap con l’Europa grazie ad una serie di fattori, primo fra tutti la diminuzione della spesa per l’acquisto di servizi formativi dai fornitori esterni. Questa scelta ha interessato non solo le grandi imprese ma anche quelle piccole e medie.
Analizzando i dati esteri, la media europea delle imprese che hanno offerto formazione ai propri dipendenti è pari al 60%, mentre nel nostro Paese raggiunge appena il 32%. Questi numeri ci collocano al terzultimo posto in Europa, con una performance che ci avvicina a quelle registrate nei paesi neocomunitari. Questo risultato è determinato in prevalenza dall’assetto che il sistema produttivo nazionale assume in alcuni settori tradizionali (ad esempio, nel tessile, nel turismo, nel commercio al dettaglio), in corrispondenza di una ridotta struttura dimensionale e di una bassa intensità di innovazione tecnologica. Da sottolineare, comunque, che il dato è in crescita rispetto al 1999, quando il valore non raggiungeva il 24%. In Italia il 29% dei dipendenti (2,5 milioni) è stato coinvolto in corsi di formazione, contro la media UE del 33%.
In conclusione, si può affermare che proprio in questa fase di rallentamento produttivo si possono gettare le basi per cogliere le opportunità che si presenteranno quando il ciclo economico riprenderà a crescere. In altri termini, è conveniente investire sulla formazione proprio in questa fase per dotarsi delle risorse e delle competenze necessarie a gestire adeguatamente il momento di ripresa.
Daniela Sallustio