Qual è la direzione verso cui si muove il giornalismo oggi? Cosa è cambiato nel mondo della comunicazione dall’avvento dei social e quali strumenti servono per interpretare e filtrare correttamente la mole di informazioni che circola quotidianamente sul web? Pensare che queste domande siano settoriali, riguardanti solo la professione del giornalista, è sbagliato e fuorviante: il giornalismo non è materia per un numero ristretto di persone. Se è vero che non tutti lo praticano, è anche vero che a tutti è rivolto, influendo notevolmente nella quotidianità della gente e nel suo modo di vedere e interpretare il mondo. Ne abbiamo parlato con il giornalista Alberto Puliafito, Direttore Responsabile di Blogo, Cofondatore e regista di iK Produzioni, Cofondatore di Slow News ed editor di Wolf. Recentemente è uscito il suo terzo libro, DCM – Dal giornalismo al digital content management.
Parliamo di verifica delle fonti partendo da un esempio recente, quello di Repubblica che ha erroneamente data per vera la notizia di Trump che si è espresso contro la Statua della Libertà: come siamo messi in Italia? Perché, nel 2016, assistiamo ancora a errori così eclatanti?
In Italia siamo messi male: la tendenza è quella di dare la colpa alle nuove tecnologie, siamo tutti preoccupati dai siti di bufale, siamo preoccupati da Facebook, dalle fake news… Io sono più preoccupato dal fatto che le notizie false si diffondano sui giornali. Siamo messi male perché la volontà di pubblicare una notizia prima di tutti, di fare più click, di diffondere qualcosa che non si è prima verificato, porta a un modello di business che genera un circolo vizioso da cui non si vede via d’uscita. In più, anche se noi giornalisti siamo obbligati a fare una formazione continua, è molto raro che un editore punti a far fare della vera formazione ai suoi autori, già di per sé una categoria abbastanza supponente. Prima di leggere il manuale di Verification Handbook, tradotto in italiano dal mio collega Andrea Coccia, io stesso ero convinto di molte cose su cui poi mi sono dovuto ricredere.
Qual è appunto l’importanza di un manuale come il Verification Handbook? Che esito ha avuto il tuo appello via social fatto ad alcuni importanti giornalisti italiani per far adottare questo scritto nelle loro redazioni?
Da Anna Masera di Repubblica ho ricevuto un retweet e un paio di like, Riccardo Luna invece non mi ha proprio risposto. Lo so che ci sono delle grosse difficoltà al riguardo e che loro non possono certo avere un così forte potere decisionale, però credo che se cominciassimo a collaborare davvero tra noi giornalisti, dandoci delle procedure per lavorare al meglio ed evitare episodi come quello già citato, allora le cose potrebbero cambiare sul serio. A volte, poi, è anche il giornalista che ci mette del suo, credendo di non aver bisogno di strumenti per verificare le fonti di una notizia, ma spesso risulta il contrario. Una frase che mi ha illuminato è “Tutto è falso fino a prova contraria”, una nozione che chi fa questo mestiere dovrebbe avere come forma mentis. Tutto va verificato, anche un lancio di agenzia. Se noi smettessimo di voler scrivere 150 pezzi al giorno – magari sullo stesso argomento – e di fare giornali da 64 pagine, avremmo tutto il tempo di pubblicare solo articoli verificati, dando un valore diverso alla nostra professione e una qualità migliore al lettore, che così avrebbe più voglia di comprare il giornale. Io non credo affatto che il lettore sia stupido, anzi: sa riconoscere la qualità e quindi è disposto a pagare per averla.
Sicuramente ci sono lettori di questo tipo, però sembra che il popolo dei social sia maggiormente composto da chi predilige la news scandalistica e scioccante, affamato più della rapidità con cui si diffonde una notizia che della sua veridicità, ed è a questa categoria che sembrano rivolgersi gli editori. Credi che il giornalista oggi stia un po’ inseguendo questa tipologia di lettore?
Sicuramente si insegue quello che la massa ama cliccare. Però voglio ribaltare il concetto: secondo me tutto nasce dal fatto che si è male interpretato Facebook, che non è né un’edicola né una piattaforma di distribuzione. Spesso le persone non cliccano neanche sulle notizie che passano per questo social. Credo che si sia sempre sovrastimato il numero reale di coloro che sono davvero interessati a un certo giornalismo, che sono in realtà una nicchia. Questo è stato il primo errore. Oltre a ciò, si lavora sempre come se si dovesse cambiare ogni volta il mondo, puntando a raggiungere il maggior numero di persone possibili. Cambiamo il paradigma: io non voglio arrivare a quante più persone possibili. Io voglio arrivare a quelle persone davvero interessate a un giornalismo di qualità, sperando ci sia poi un passaparola che porti altri ad andare su un sito che magari pubblica molte meno notizie al giorno, ma pensate e scritte bene. Credo che il modello vada radicalmente cambiato.
Quello che porti avanti tu, con iniziative come Slow News o Wolf, può essere interpretato quasi come un atto di coraggio. L’editore, però, bada anche all’aspetto economico, e quindi punta a raggiungere più persone possibili. Credi che si possa invertire questa tendenza e concentrarsi sul fatto che un giornalista, in quanto tale, ha una grande responsabilità nei confronti dei suoi lettori?
Sì, ma i cambiamenti ottenuti non saranno su scala annuale, ma generazionale. Stiamo parlando di un processo culturale. Oggi è impossibile invertire questa tendenza, a meno che non lo faccia uno dei big dell’informazione. Si tratta sicuramente di una scelta coraggiosa e necessitiamo di pionieri in questo senso. La seconda newsletter che ho creato, Wolf, insieme a Pier Luca Santoro, Andrea Coccia e agli altri miei colleghi, nasce proprio da questo principio: ci rivolgiamo direttamente ai giornalisti, parliamo di loro, ma per leggerci bisogna pagare. La cosa sta funzionando. Facendo così, non dipendendo dagli investitori pubblicitari ma dai lettori, si è molto più liberi nell’affrontare i vari argomenti. Il rischio però è che si faccia un tipo di informazione che si rivolga a un pubblico elitario che abbia la capacità di spesa, rinunciando al ruolo “educativo” di fare giornalismo. Ma comunque, leggendo le testate generaliste italiane di oggi, non mi sembra che il ruolo “educativo” sia così presente, e quindi preferisco provare altre strade. Mi spiace di non poter arrivare a tutti, ma pazienza. Personalmente, poi, ho smesso di informarmi tramite i quotidiani online italiani: molte delle notizie riportate, sinceramente, non mi interessano, e molte non le ritengo utili, non cambieranno il mio pensiero né il mio modo di vedere le cose. Bisogna uscire dal flusso di informazione continua e saper filtrare le notizie che ci arrivano.
Forse molti lettori non hanno però lo spirito critico per compiere azioni del genere.
In questo dovevano intervenire i giornalisti, a questo dovrebbe servire la scuola, che deve impegnarsi molto di più per insegnare le giuste nozioni in ambito di digitale. Il giornalista per primo doveva spiegare e illustrare le varie criticità al lettore, ma noi stessi abbiamo abdicato a questo ruolo.
In molti ritengono che, tra le modifiche apportate al mondo della comunicazione dai social, quella della rapidità abbia avuto l’impatto più devastante, soprattutto a livello di qualità dell’informazione. Sei d’accordo con un’affermazione del genere?
Sì, assolutamente. Se ci pensi, anche la comunicazione politica va verso quella direzione. La rapidità è diventata un valore, ma, di per sé, la rapidità non porta a niente di buono. Anche questo morboso attaccamento allo smartphone è un problema: persino chi lavora nel campo dell’informazione ha bisogno di staccare e di non osservare compulsivamente notifiche ed email ogni minuto.
Ha avuto un’eco mondiale il clamoroso fallimento di sondaggisti e giornalisti riguardanti le ultime elezioni del presidente USA, dove si era data per certa la vittoria della Clinton ma così non è stato. Come si è arrivati, secondo te, a questa enorme distanza tra giornalismo e realtà? Perché non si è stati capaci di interpretare correttamente i segnali del mondo circostante?
Su questo io sono molto duro: i giornalisti, quelli con la G maiuscola e che possono davvero fare la differenza, passano il tempo a guardarsi il loro ombelico, a raccontare ciò che vedono attraverso di esso e a pensare che ai lettori gliene importi qualcosa. Interpretiamo il mondo attraverso schermi e modelli non adattati però alla realtà. I giornalisti del Los Angeles Times si sono distinti in questo: hanno usato per la prima volta un campione diverso da quello previsto dai manuali di statistica e sono scesi più in confidenza con esso, cosa che sicuramente da un punto di vista scientifico non è poi così corretta. Ma ha funzionato, e hanno capito che molti di coloro che volevano votare Trump si vergognavano ad ammetterlo, e il numero è stato quindi sottostimato. Il giornalismo e la politica, i settori che più dovrebbero essere a contatto con le persone, hanno perso il rapporto con la realtà. A me piacciono molto gli eventi per noi giornalisti dove parliamo tra di noi, ma dobbiamo tornare per strada, confrontarci con la gente. Non abbiamo più tempo per farlo, né la giusta motivazione. Credo che il mainstream non possa indicarci la via della salvezza in questo senso, ma può farlo il giornalismo dal basso, i gruppi di professionisti che decidono di intraprendere delle iniziative ex novo, magari di giornalismo locale. Io sarei disposto a pagare per sapere cosa accade davvero nei piccoli centri o nelle province, non mi interessa leggere del tweet di questo politico o di quest’altro.
In un tuo articolo hai parlato, in occasione dell’attentato terroristico a Nizza, della differenza che intercorre, anche solo a livello di titolo, tra giornalismo italiano ed europeo: in quel caso, le nostre principali testate hanno seguito la vicenda con titoli lunghissimi che riportavano episodi non verificati con lo scopo di scioccare, mentre i siti francesi o tedeschi si sono limitati a titoli asciutti che non dicessero di più di quello che effettivamente si sapeva. Perché l’infotainment è così radicato nella cultura italiana?
Se devo pensarla dal punto di vista della storia del giornalismo, potrebbe darsi che il motivo è che noi abbiamo tradizionalmente fatto una scelta editoriale per cui i giornali sono dei calderoni generalisti in cui trovi, accanto all’analisi politica fatta bene, notizie di gossip. In altri termini, non abbiamo il Sun ma neanche il Guardian, il che è un problema. Non mi spiego però perché almeno questa questione dei titoli non venga modificata. Inoltre, se ci pensi, anche i giornali stranieri devono monetizzare e far soldi, però nel sito del Guardian non trovi la solita “colonna di destra” che invece è presente sui nostri quotidiani. Perché non proviamo a cambiare le cose? Se continuiamo a fare questo tipo di giornalismo, siamo noi i primi a favorire la diffusione delle notizie false su Facebook, abituando le persone ai toni scandalistici e quindi non facendo porre loro le giuste domande quando hanno a che fare, per esempio, con la storia delle scie chimiche. Manca il coraggio di cambiare, di provare almeno a introdurre una modifica sulla giusta via. La barca del cambiamento la dovrebbero guidare le grandi testate del giornalismo italiano: sono loro che dovrebbero almeno tentare di cambiare le cose ma, appunto, manca il coraggio.
Quindi come vedi il futuro del giornalismo italiano?
Sono assolutamente pessimista, come detto, per quanto riguarda il giornalismo mainstream, ma invece sono molto ottimista sul futuro del giornalismo dal basso. I grandi lasceranno delle praterie dove le persone che hanno voglia di provare e di mettersi in gioco faranno crescere cose nuove. Non sarà una cosa immediata, e ci vorranno almeno cinque anni prima che queste nuove realtà diventino sostenibili. Ripeto, si tratta di scelte coraggiose che non credo possano venire dalle grandi testate, ma possono invece derivare dai piccoli nuclei di professionisti.
Lucia Mancini